Allegrini
AllegriniBiography
Da parecchie generazioni la famiglia Allegrini ha un ruolo di primo piano nell’agricoltura della Valpolicella. Un documento del 1557, nel quale si attesta che Allegrino Allegrini è riuscito ad acquisire il diritto di sfruttare alcune fontanelle o “sorzive” di Mazzurega, frazione di Fumane, per irrigare le sue proprietà, consente di far risalire almeno al XVI secolo la loro presenza nel territorio. Ed era già allora una presenza in posizione preminente nella società locale, visto che, secondo atti e trascrizioni fra il 1616 e il 1630, gli Allegrini erano tra i più importanti proprietari terrieri della zona. Il capostipite della nuova generazione, Giovanni Allegrini, ha quindi ricevuto in eredità una secolare tradizione agricola, ma ha saputo rinnovarla diventando uno dei padri della storia enologica della sua terra. Dopo il Secondo conflitto mondiale è stato tra i primi a mettere in discussione la viticoltura tradizionale, stravolgendo senza timore le consuetudini più radicate per imboccare la strada della qualità. Sapeva il fatto suo anche in cantina: suo padre lo aveva avviato alle cure della vinificazione quando aveva appena 12 anni, e lui aveva imparato presto. Lo chiamavano “Il ragno delle botti” perché quando faceva assaggiare ai clienti i vini ancora in affinamento saltava da uno all’altro dei grandi fusti per prelevarlo. Intelligenza e passione gli permisero di produrre, fra gli anni 60 e i 70 del 1900, alcuni tra i migliori vini della Valpolicella. Il suo ultimo progetto, che non ebbe il tempo di vedere completamente realizzato, fu il reimpianto a vigneto della più qualificata e prestigiosa tenuta della Valpolicella storica, la Grola, una collina abbandonata fin dagli inizi del 1900: egli la riportò alla vita produttiva e la rese praticabile ai nuovi mezzi meccanici. Gli sono succeduti i suoi figli: scomparso prematuramente nel 2003 il primogenito, Walter, l’azienda è oggi condotta dagli altri due, Marilisa, che si occupa del marketing, e Franco, l’enologo. I loro vigneti sono tutti nelle colline della Valpolicella Classica: 70 ettari in proprietà, 20 in affitto. Con una produzione di 900mila bottiglie all’anno, l’azienda ha offerto un contributo essenziale all’affermazione in Valpolicella dell’idea di cru: ne sono una evidente espressione due rossi, la Grola e Palazzo della Torre, che sono i migliori ambasciatori del territorio nel mondo. Aggiungendovi un innovativo Amarone e La Poja, corvina in purezza tratto da un vigneto in cui questa varietà esprime tutta se stessa, gli Allegrini hanno messo in tavola un poker d’assi.
Antinori
AntinoriBiography
La famiglia Antinori si identifica con Firenze dagli inizi del Duecento, quando si trasferì da Calenzano per esercitare in città l’attività mercantile prima nel settore della seta e successivamente dei vini. L’iscrizione da parte di Giovanni di Piero Antinori all’Arte dei Vinattieri é datata 1385. Da 26 generazioni é protagonista della vitivinicoltura toscana, con iniziative che hanno anticipato i tempi: già nel 1898, con la fondazione della Fattoria dei Marchesi Lodovico e Piero Antinori, i possedimenti e le tenute agricole sono state trasformati in un’impresa moderna e organizzata. Negli ultimi 30 anni l’azienda, guidata dal marchese Piero Antinori, é diventata per fatturato complessivo il più importante gruppo vitivinicolo privato d’Italia, con una produzione di 18 milioni di bottiglie. Pur identificandosi strettamente con la Toscana, la società Marchesi Antinori possiede anche tenute in altre regioni, prima fra tutte l’Umbria, disponendo di 1.400 ettari vitati, e ha investito in aziende vinicole in vari angoli del mondo, dall’Ungheria alla California, al Cile. L’aspetto forse più significativo della produzione Antinori é la sua altissima qualità anche nei vini di prezzo più accessibile. Ma Piero Antinori si é imposto come capofila del Rinascimento enologico italiano con la creazione del Tignanello, il primo SuperTuscan scaturito dalla fusione del sangiovese con il cabernet e maturato in barrique. Ma sono parecchi i gioielli di famiglia creati durante la sua gestione: dal Solaia, nato nel Chianti come il Tignanello, al Guado al Tasso, originario invece di Bolgheri, dal Pian delle Vigne, ch’é un Brunello di Montalcino, al Cervaro della Sala, grande bianco figlio di Orvieto così come il Muffato della Sala, prototipo dei bianchi dolci da pourriture noble. Il ricambio generazionale darà in futuro all’azienda un vertice tutto al femminile: Piero Antinori ha infatti tre figlie, Albiera, Allegra e Alessia. Sarà un modo diverso per essere ancora una volta all’altezza dei tempi.
Argiolas
ArgiolasBiography
La casa vitivinicola Argiolas non ha scelto per caso il nome della famiglia come marchio: é sempre stata un’azienda a conduzione familiare fin dalla creazione a Serdiana, nel Cagliaritano, ad opera di Francesco Argiolas, nei primi anni del 1900. La memoria orale ha tramandato il ricordo che a impiantare alcuni dei suoi vigneti contribuì, durante la Prima guerra mondiale, un gruppo di prigionieri di guerra austriaci e polacchi. A dare all’azienda veste legale e impulso imprenditoriale é stato nel 1938 il figlio di Francesco, Antonio Argiolas, assai intraprendente nel commercializzare la produzione di Monica, Nuragus e Cannonau, già avviata da suo padre, anche fuori della Sardegna: prima in Toscana, Lazio e Veneto, successivamente in Francia e in Germania. Vini di buon livello ma orfani della bottiglia, però, come quasi tutti quelli, anonimi invece anche sul piano organolettico, prodotti nell’isola. Proprio a causa della profonda crisi che il commercio di vino sfuso attraversò negli anni 80, molti vignaioli in Sardegna si convinsero ad abbandonare la viticoltura accettando i contributi che la Cee elargiva a chi espiantava le proprie viti. Antonio Argiolas, ritenendo che la qualità sarebbe stata pagante, prima o poi, scartò a priori quella soluzione, anche se avrebbe potuto arricchirsi senza muovere un dito. La svolta decisiva l’hanno impressa i suoi figli, Franco e Giuseppe, che, presa la guida dell’azienda, nel 1989 hanno convertito la produzione all’imbottigliamento. Decisivo é stato il loro incontro con Giacomo Tachis, padre della moderna enologia italiana, di cui il loro enologo Mariano Murru é allievo. E’ stato con l’assistenza di Tachis che i fratelli Argiolas hanno riconvertito i loro vigneti e sperimentato nuove strade in cantina, prime tappe di un percorso che li ha portati a imporsi in tutti i mercati del mondo. Se il successo si misura con le cifre, quelle dell’Argiolas possono testimoniarlo: l’azienda, che oggi dispone di 230 ettari di vigneto dislocati in quattro località, Serdiana, Selegas, Siurgus Donigala e Porto Pino, con i dieci tipi di vino che propone e la sua capacità produttiva annua di circa 2 milioni di bottiglie é diventata la punta di diamante per l’affermazione del vino sardo nel mondo. Il suo vino più rappresentativo, il carnoso Turriga, un Igt Isola dei Nuraghi, che nasce da un uvaggio di varietà autoctone, cannonau, carignano, bovale sardo e malvasia nera, é entrato nell’esclusivo club internazionale dei fuoriclasse, ma a costruire la fama del marchio contribuiscono anche il bianco secco Is Argiolas, un Vermentino di straordinaria stoffa, e il bianco dolce Angialis, in cui una piccola percentuale di malvasia accende gli aromi delle uve isolane di Nasco.
Bertani
BertaniBiography
La casa vinicola Bertani fu fondata nel 1857 dai fratelli Giovanbattista e Giovanni Bertani a Quinto di Valpantena, in provincia di Verona. In Francia, Giovanbattista ebbe l’opportunità di conoscere Jules Guyot, filosofo e scienziato, inventore del sistema di potatura della vite più usato al mondo. Fu un incontro di enorme importanza, che ispirò ai Bertani il concetto di terroir e li spinse ad adottare le più avanzate tecniche di produzione al fine di valorizzare la loro produzione enologica. La casa raggiunse il massimo fulgore negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale sotto la guida della seconda generazione della famiglia, rappresentata da Guglielmo Bertani e da suo fratello Giovan Battista jr. Furono loro a espanderne l’attività fuori della Valpantena in tutte le zone vocate del Veronese: nel nord-ovest del Bardolino, nel nord-est del Soave Classico, dove fu creata nel 1928 una cantina di vinificazione a Monteforte d’Alpone, e nella zona classica della Valpolicella, dove fu acquisita nel 1957 la tenuta Novare, ad Arbizzano di Negrar, la più grande del territorio, con 225 ettari di terreno, di cui 60 a vigneto, con la cantina di Grezzana, cuore pulsante nonchè attuale sede della società, e uno dei più bei gioielli architettonici della zona, l’imponente villa edificata nel 1700 dal conte Luigi Trezza. Oggi la Bertani, ancora di proprietà dell’omonima famiglia, può disporre di oltre 130 ettari di vigneto in tutte le principali zone Doc veronesi. Il suo nome é però inscindibilmente legato alla produzione dell’Amarone; il fiore all’occhiello della casa é infatti l’Amarone della Valpolicella Classico, grande assemblaggio di corvina, rondinella e molinara che ha fatto storia nell’enologia italiana. L’Amarone Bertani si é imposto all’attenzione per le sue caratteristiche inconsuete: le 80mila bottiglie di produzione annua sono le sole che normalmente venivano poste in vendita nove-dieci anni dopo la vendemmia, di cui otto trascorsi in botte. Purtroppo in anni recenti é stato necessario abbreviare l’abituale periodo d’invecchiamento. Ma solo perchè la Bertani, unica anche in questo, non ha prodotto questo vino per due vendemmie consecutive giudicate inadatte, il 1991 e il ’92, e ha dovuto anticipare la vendita dei millesimi successivi per non restare assente dal mercato per un biennio. Di Amarone Bertani esiste un solo tipo. Come mai? La tesi dell’azienda é che per chiamarsi Amarone della Valpolicella esso dev’essere espressione dell’intero territorio. Ma poichè la Valpolicella si impernia su tre vallate che danno vini di caratteristiche abbastanza diverse, l’Amarone deve nascere da una cuvèe che ricostruisca la complessità dell’intera zona di produzione.
Biondi Santi
Biondi SantiBiography
La tenuta del Castello di Montepò, situata in Maremma a sud di Grosseto, sul parallelo della Fortezza di Talamone, é lontana da Montalcino. Come mai Jacopo Biondi Santi, ultima generazione della famiglia che ha inventato il Brunello, lo ha acquistato dalla nipote dello scrittore inglese Graham Greene per farne la sede della propria attività vinicola? Il motivo é semplice: a perpetuare la tradizione a Montalcino, seguendo la strada degli avi, ci pensa suo padre Franco, mentre lui sta perseguendo, fin dal 1991, un progetto diverso: produrre vini più vicini alle esigenze del mercato, senza però entrare in conflitto con l’immagine del Brunello di Montalcino a cui il suo nome é così strettamente legato. A partire dalla vendemmia 1991 ha prodotto perciò il Sassoalloro, ricavato dalle stesse uve del Brunello ma vinificate in modo innovativo. E con la vendemmia 1993 ha creato un altro SuperTuscan, lo Schidione, assemblando sangiovese, cabernet sauvignon e merlot. L’operazione é entrata in fase esecutiva con l’acquisizione di Montepò, presso cui si era procurato le uve per quei primi esperimenti: 360 ettari di terreno a grande vocazione vitivinicola dominati da un Castello, una fortezza medievale inespugnata nel corso dei secoli. Arroccato sulla sommità di un imponente rilievo, l’edificio militare fu ingentilito in parte durante il Rinascimento, ed é oggi in splendide condizioni perchè il marito della precedente proprietaria (che qualche anno anno fa é stato nominato direttore del British Museum di Londra) lo aveva riportato al primitivo splendore con un esemplare restauro. Jacopo Biondi Santi ha portato la superficie vitata a 220 ettari, impiantandovi il vitigno storico di famiglia, il sangiovese, ma anche varietà internazionali: cabernet sauvignon, merlot, sirah. La composizione dei terreni, la varietà dei microclimi e la vicinanza del mare rendono la tenuta adatta alla realizzazione di vini di altissimo livello, pienamente espressivi delle grandi potenzialità vitivinicole del territorio maremmano. Da un altro cru che Biondi Santi ha individuato é nato nel 1997 l’ultimo grande rosso della sua gamma, un Cabernet Sauvignon in purezza che ha battezzato con l’antico nome di Montepò: Montepaone. Ma questo puntare sui SuperTuscan non significa infrangere la tradizione famigliare? “Niente affatto”, sostiene lui: “in fondo il Brunello di Montalcino é nato da una trasgressione al modo di vinificare di un secolo fa, trasgressione deliberatamente compiuta dal mio bisnonno Ferruccio. Il quale, prima di diventare viticoltore, aveva combattuto con Garibaldi a Bezzecca nel 1866, quando aveva appena 17 anni. Non era un conformista, era un temperamento libero e ribelle. E io spero di assomigliargli almeno un po’”.
Braida
BraidaBiography
La storia dell’azienda Braida si identifica con l’avventura personale di uno dei più straordinari personaggi del mondo del vino, Giacomo Bologna. Cento chili e più d’irresistibile simpatia, una carica travolgente d’umanità, mascherata di sorridente ironia, un’esuberante forza vitalistica. A 16 anni aveva ereditato dal padre, morto prematuramente, un bel vigneto in Rocchetta Tanaro e, di diritto, il suo soprannome, Braida. Grazie forse a quel vigneto nutriva una fiducia illimitata nella varietà di vite più diffusa in Piemonte, quella di barbera, ancorchè fosse considerata volgarotta e plebea. Ma il vino che ne aveva tratto lui, il Bricco dell’Uccellone, era tutt’un’altra cosa. “Simile al suo patriarca Giacomo Bologna”, ha scritto il giornalista Burton Anderson, “questo Barbera invecchiato in barrique che prende il nome da una vigna sopra Rocchetta Tanaro a est di Asti é smisurato, forte, caldo, generoso, carico di fantasia e di temperamento e tuttavia convincente al primo assaggio, e certo di superare la prova del tempo”. Giacomo Bologna lo aveva progettato dopo un viaggio in California e dopo un incontro con Andrè Tschelitscheff, l’enologo americano d’origine russa ch’era considerato il più grande esperto del mondo nell’uso delle barriques. Queste esperienze lo avevano convinto che proprio la Barbera (lui la chiamava così, al femminile, come tutti i piemontesi), tanto povera di tannini e tanto ricca di acidità, avrebbe potuto raggiungere, con una lunga permanenza nella piccola botte da 225 litri in rovere del Massiccio Centrale francese, quell’aristocratico rango che nessuno era disposto, allora, a riconoscerle. E aveva ragione: presentato al Vinitaly nel 1985, il Bricco dell’Uccellone 1982 ottenne un successo leggendario, grazie al quale la Barbera é entrata per la prima volta nel club internazionale dei grandi vini di nobile schiatta. Come suo padre, é scomparso troppo presto, Giacomo Bologna, ma la sua azienda, la Braida, ha continuato il suo cammino sulla strada del successo. La gestiscono sua moglie Anna, da sempre amministratrice dell’impresa familiare, e i due figli: Beppe, enologo, e Raffaella, esuberante come il padre e come lui con il marketing nei cromosomi. Dal 1991 essi hanno deciso di imbottigliare una nuova Barbera, che Giacomo aveva progettato e seguito fino alla vendemmia, poco prima della scomparsa. E l’hanno battezzata con l’esclamazione che gli era sfuggita quando aveva assaggiato il mosto: “Ai Suma”. Tre sillabe che significano: “Ci siamo!”.
Castello d'Albola Zonin
Castello d'Albola ZoninBiography
Lo chiamano “banchiere di vino”, ma Gianni Zonin, il maggiore imprenditore privato italiano delle vigne, ha accettato di presiedere la Banca Popolare di Vicenza per spirito di servizio, e ne é rimasto alla guida grazie ai brillanti risultati ottenuti. Ma non lo ha fatto per passione: la sua vocazione é e resta la terra. Diplomato in enologia e laureato in giurisprudenza, dirige l’azienda familiare, a Gambellara, provincia di Vicenza, dal 1967, quand’é diventata società per azioni e lui ne é stato nominato presidente a soli 29 anni. Si deve alle sue intuizioni se l’impresa, fino allora esclusivamente vinicola, ha puntato da quel momento sui vigneti di proprietà come strumento per fare qualità, con la graduale acquisizione di grandi aziende agricole nelle regioni a maggior vocazione enoica, dal Friuli alla Toscana, dal Piemonte alla Lombardia, dalla Puglia alla Sicilia. Cosicchè la Zonin é diventata un gruppo che al grande stabilimento vinicolo di Gambellara affianca nove tenute di proprietà, otto in Italia e una in Virginia, negli Stati Uniti d’America, per complessivi 1.800 ettari di vigneto, dando lavoro a 350 dipendenti e producendo 23 milioni di bottiglie all’anno. La filosofia della Zonin é che la vera sfida non é quella di produrre vini buoni in piccole quantità a prezzo (necessariamente) elevato, ma di produrli in volumi tali che grazie a un prezzo più accessibile possano essere bevuti da un numero elevato di consumatori. Gianni Zonin questa sfida l’ha vinta: l’Acciaiolo, maestoso assemblaggio di sangiovese e cabernet sauvignon che produce a Radda in Chianti nell’azienda Castello d’Albola, é uno dei SuperTuscan di personalità più spiccata, e il Deliella, affascinante Nero d’Avola del Feudo Principi di Butera, uno dei vini di maggior prestigio della Sicilia.
Domini Castellare di Castellina
Domini Castellare di CastellinaBiography
Castellare di Castellina é un’azienda di 90 ettari nel cuore del Chianti Classico, a Castellina, nata nel 1968 dalla fusione di cinque diversi poderi. Nel 1980 é stata acquistata da Paolo Panerai, che nel corso degli anni l’ha resa una delle più note realtà vitivinicole del Chianti Classico. Gli ettari di vigneto sono in totale 30, di cui 24 sulle colline di un anfiteatro naturale esposto a sud-est; la produzione é di circa 240mila bottiglie fra Docg e Igt Toscana. Prevalentemente rossi ma con tre bianchi ben strutturati, intensi e adatti anch’essi a un lungo invecchiamento. Le rese per ettaro, specialmente per i vini rossi, sono a Castellare al disotto dei disciplinari di produzione. Un censimento di viti, intrapreso subito dopo l’acquisto, ha consentito di selezionare le migliori specie di sangioveto, la nobile versione autoctona del sangiovese, e di malvasia nera, le varietà che consentono di fornire una caratterizzazione particolare soprattutto a I Sodi di S. Niccolò, il vino fiore all’occhiello di Castellare, che ha ottenuto i più alti riconoscimenti a livello mondiale, compresa la presenza per due volte consecutive nella 100 Top di Wine Spectator. La parola “sodi” veniva usata dai contadini toscani per descrivere quei terreni che dovevano essere lavorati a mano, essendo troppo duri (appunto sodi) o troppo ripidi per permettere l’impiego dei buoi.
I Sodi di S. Niccolò, proveniente dalle due migliori vigne (o anche cru) dell’azienda, é la dimostrazione che le varietà autoctone della zona possono dar vita a vini di elevatissimo profilo, senza l’ausilio di vitigni internazionali.
Da Castellare (che per questo ha cambiato nome in Domini Castellare di Castellina) in joint venture con Domain Baron de Rothschild-Lafite, é nata nel 2000 Rocca di Frassinello. Dalla cantina in Maremma, progettata da Renzo Piano, i primi vini messi in vendita sono quelli dell’annata 2004 curata dagli enologi Alessandro Cellai e Christian Le Sommer. Già l’annata 2005 ha ricevuto i massimi punteggi.
Donnafugata
DonnafugataBiography
Il nome Donnafugata, letteralmente “donna in fuga”, fa riferimento alla storia della regina asburgica Maria Carolina, consorte di Ferdinando IV di Borbone, che ai primi dell’800 fuggì dalla corte di Napoli per l’arrivo delle truppe napoleoniche di Murat e si rifugiò in Sicilia, nel cuore del Belice.
Fu poi lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo famoso romanzo Il Gattopardo, a indicare con il nome di Donnafugata i possedimenti di campagna del Principe di Salina.
L’Azienda Donnafugata nasce in realtà da una famiglia che da 150 anni ha fortemente creduto nelle straordinarie potenzialità enologiche della propria terra di origine.
Giacomo Rallo e la moglie Gabriella, siciliani Doc entrambi e convinti che per crescere e migliorare bisogna sempre essere aperti al cambiamento, nel 1983 hanno dato vita a un nuovo progetto, un’avventura imprenditoriale che prendendo l’avvio dalle storiche cantine di famiglia a Marsala e dalle vigne di Contessa Entellina, approdasse anche sull’Isola di Pantelleria per produrre vini improntati alla ricerca della qualità estrema.
Ai genitori oggi si sono affiancati nella gestione dell’azienda anche i figli, Josè ed Antonio, cosicchè l’azienda soprattutto negli anni più recenti ha fortemente accelerato il passo divenendo uno dei nomi simbolo della rinascita dell’enologia siciliana.
Un progetto che, puntando sulla cura maniacale dei particolari, potesse condurre verso obiettivi sempre più avanzati, valorizzando il territorio nel rispetto assoluto dell’ambiente e della tipicità siciliana.
A questa filosofia si sono ispirati a maggior ragione nella produzione dei propri vini di punta, i Cru di Contessa Entellina e di Pantelleria.
Il Mille e Una Notte é un rosso ottenuto dall’assemblaggio di nero d’Avola con piccole aggiunte di uve autoctone, dall’impenetrabile colore rosso rubino, avvolgente al naso e di buona struttura in bocca, il Vigna di Gabri é invece un bianco profumato, ansonica 100%, così chiamato perchè fortemente voluto da Gabriella Rallo, una delle più riuscite espressioni di ansonica in cui risaltano perfettamente le tipiche peculiarità di questo vitigno le cui non trascurabili potenzialità sono state in tempi recenti giustamente rivalutate.
E infine il Ben Ryé, figlio del vento in arabo, Passito di Pantelleria Doc, profondo e di grande complessità, é da tempo il fiore all’occhiello dell’azienda, e denota la sua straordinaria personalità e profondità fin dal colore giallo ambrato di una lucentezza straordinaria
Ferrari
FerrariBiography
Che il destino stia scritto nel nome? Sembra improbabile, però é un fatto che la Ferrari di Trento sta allo spumante proprio come la Ferrari di Maranello sta all’automobile: nel suo settore é il marchio allo stesso tempo più conosciuto e più prestigioso. Come l’industria automobilistica, anche l’azienda spumantiera porta il nome del fondatore ma non é gestita dai suoi discendenti. Anche perchè Giulio Ferrari, il trentino di nobile famiglia che aveva studiato viticoltura a Montpellier, si era perfezionato in Champagne e tornato alla città natale vi aveva fondato nel 1902 un’azienda per produrre vino con le bollicine, di eredi non ne aveva. Proprio per questo nel 1952, superata la settantina, aveva deciso di vendere l’impresa a Bruno Lunelli, che dopo aver fatto il garzone nella drogheria dei genitori di Cesare Battisti, l’irredentista impiccato dagli austriaci, aveva aperto una bottiglieria a due passi da casa sua, nei pressi del Duomo di Trento. In realtà, Ferrari continuò a occuparsi in prima persona dell’azienda fino al 1965, quando morì a 86 anni. Bruno Lunelli, invece, anche se ne aveva soltanto 63, cedette il bastone di comando ai figli quattro anni dopo, forse presago della fine che per lui sarebbe venuta troppo presto, nel 1973. L’ultima soddisfazione, due anni prima, aver visto inaugurare il nuovo stabilimento alle porte di Trento, presso il Ponte di Ravina. La leadership della Ferrari nella produzione dello spumante d’alta qualità é stata conquistata dall’opera tenace di tre dei suoi cinque figli: Gino, il presidente della società, Franco, che ha gestito l’Enoteca nei pressi del Duomo, e Mauro, l’enologo che ha messo a punto giovanissimo, nel 1972, la mitica Riserva del Fondatore, il blanc de blanc metodo classico Giulio Ferrari: una cuvèe di solo chardonnay, espressione di un singolo vigneto a Maso Pianizza, un autentico cru che, per la composizione della terra e il clima, può esser considerato un capolavoro della natura. Figlio soltanto di uve giunte a perfetta maturazione, si produce esclusivamente nelle annate migliori con un processo di maturazione sui propri lieviti che può durare anche dieci anni. Il frutto di tante attenzioni é uno spumante elegante, finissimo, di straordinaria longevità. E’ il vertice di una piramide produttiva di 4,8 milioni di bottiglie all’anno, e queste sono il core business di un piccolo impero di cui fan parte aziende agricole che producono vini fermi, l’acqua minerale Surgiva e la distilleria di grappa Segnana. A gestire il gruppo é oggi la terza generazione dei Lunelli, composta da tre cugini: Matteo, vicepresidente; Marcello, enologo; Camilla, responsabile relazioni esterne. E lei é la prima donna giunta ai vertici dell’azienda.
Fontodi
FontodiBiography
La famiglia Manetti é celebre da molte generazioni nel Chianti, ma non per il vino: la sua notorietà é legata alla produzione del cotto dell’Impruneta. Fama più che giustificata: é stata proprio l’azienda di Domiziano e Dino Manetti a ricostruire le tegole per il restauro della cupola del Duomo di Firenze e a firmare il pavimento della Galleria degli Uffizi. Ma oggi é difficile dire se il loro nome é più conosciuto nel mondo per il cotto o per i vini, anche se la loro avventura enologica é cominciata in anni recenti. Il primo passo fu l’acquisto, nel 1968, dell’azienda agricola Fontodi, nel cuore della zona fiorentina del Chianti Classico, nei pressi della Pieve di San Leonino, nella vallata che si apre a sud di Panzano, denominata da secoli “Conca d’Oro” per la sua eccezionale posizione: i suoi sono terreni difficili, avari di uve, ma particolarmente vocati alla viticoltura. Il segno che qualcosa era cambiato, nel rapporto dei Manetti con quella che per loro era semplicemente la casa di campagna, si ebbe nel 1980, quando l’intera famiglia vi si trasferì. Era successo che a occuparsi, e con profondo impegno, delle vigne e dell’attività vinicola, erano stati i Manetti jr, i giovani figli di Dino, Giovanni e Marco, sia pure con la costante supervisione del padre e dello zio Domiziano. E difatti, con la vendemmia dell’anno successivo, 1981, accanto ai prodotti tradizionali, Chianti Classico e Chianti Classico Riserva, fu messo in cantiere un vino che avrebbe fatto sensazione, il Flaccianello della Pieve. A progettarlo, per conto dei giovani Manetti, fu un enologo giovane anch’esso, Franco Bernabei, ma di grandi ambizioni. Di sole uve sangioveto, ricavate dal vigneto meglio esposto della fattoria, il Flaccianello fu vinificato in modo allo stesso tempo tradizionale e innovativo: la fermentazione, cioé, fu fatta con prolungata macerazione delle bucce, ma a temperatura controllata. Dopo di che, a marzo, il vino fu posto a maturare in barrique, la piccola botte in rovere del Massiccio Centrale francese, e, dopo una sosta prolungata in legno, passò ad affinarsi altrettanto lungamente in bottiglia. Da allora, Fontodi ha fatto molta strada, la cantina é stata ampliata, altro terreno é stato acquisito(dei 110 ettari che contornano oggi l’azienda, 70 sono vitati, e la loro coltivazione segue i dettami dell’agricoltura biologica), nuovi vini sono stati realizzati, ma la fama dei Manetti é rimasta legata al Flaccianello della Pieve, che nelle grandi annate tocca vertici entusiasmanti. Fontodi non manca di vini di classe, come lo speziato Syrah Case Via e il Chianti Classico Riserva di un vigneto particolare, la Vigna del Sorbo. Ma il Flaccianello é un’altra cosa.
Franz Haas
Franz HaasBiography
Franz Haas, anzi Franziskus Haas per la precisione, rappresenta la sesta generazione di Haas, nella cui famiglia dal 1880 i maschi portano tutti lo stesso nome, e tutti hanno nel sangue la stessa indomita passione per la vite, il vino e per la precisione. Haas possiede cantina a Montagna, piccolo paese in provincia di Bolzano sulla sinistra orografica dell’Adige, poco sopra Egna, e i suoi vigneti (una cinquantina di ettari in totale tra proprietà e affitto) sono distribuiti negli appezzamenti migliori meglio esposti al sole e con i migliori suoli. Haas ha passato buona parte della sua vita a viaggiare per il mondo visitando le più importanti aree vitivinicole e poi a studiare le sue vigne, continuando a provare e sperimentare, nel tentativo di fare sempre meglio. Pur avendo raggiunto il successo internazionale, Haas non si é certo seduto sugli allori, ma continua a studiare per migliorare ogni anno – magari di pochissimo – i propri vini, perchè la qualità assoluta é un obiettivo impossibile da raggiungere ma da perseguire con passione. Il suo “pallino” enologico é il pinot nero, un vitigno difficile da coltivare, che solo poche volte e solo ai più capaci é in grado di dispensare grandi risultati. Con la caparbietà che gli é propria, Haas nella Valle dell’Adige é riuscito a ottenere ottimi risultati a cui si arriva soltanto in alcuni grandi cru della Borgogna. Ne sono testimonianza il Pinot Nero Normale, ma soprattutto la selezione “Schweizer” così chiamato per l’etichetta che riproduce un’opera dell’artista trentino Riccardo Schweizer. Un bel vino dal colore rubino non troppo marcato, dal caratteristico profumo di piccoli frutti e frutta rossa e dal corpo sinuoso di grande eleganza. Accanto a questi ci sono il Lagrein, classico monovitigno sudtirolese, e l’Istante, un caratteristico uvaggio bordolese (cabernet e merlot). C’é anche una gamma di vini bianchi monovarietali – pinot grigio, muller thurgau, pinot bianco e gewerztraminer – che ha il suo vertice nel Manna (il nome é un omaggio alla moglie Luisa Manna), un vino capostipite che ha introdotto il concetto di cuvèe in Alto Adige, cioé della miscelazione tra riesling, chardonnay, sauvignon e traminer: un vino di carattere, strutturato e longevo come pochi altri bianchi del Nord Italia. Completa la gamma un originalissimo e speziatissimo Moscato Rosa ottenuto dall’appassimento delle uve omonime.
Livio Felluga
Livio FellugaBiography
Quando Livio Felluga creò nel 1956 la sua inconfondibile etichetta, una carta geografica con la mappatura delle “proprie colline” per indicare il territorio in cui nascevano i suoi vini, la legislazione sulle Doc, le Denominazioni d’origine controllata, era ancora di là da venire. Praticamente immutata da allora, oltre a rivelarsi uno strumento di marketing d’impatto immediato, quell’etichetta testimonia la sua profonda convinzione che un grande vino può nascere soltanto in un cru, in un grande vigneto. E difatti, quando le Doc fecero la loro comparsa, lui era già andato oltre: vinificava in selezione i suoi vini, vigneto per vigneto, e lo dichiarava orgogliosamente in etichetta. Da dove veniva questa coscienza da precursore? Lui risponde con una battuta di spirito: “E’ ormai da cinque generazioni che la mia famiglia opera nel settore del vino: si può ben dire che da sempre il vino ci ha dato il pane”. Suo bisnonno produceva Refosco e Malvasia in Istria, suo nonno anche, e ne utilizzava una parte nella piccola trattoria che possedeva nella natia Isola d’Istria. La sua terra, che faceva parte dell’Impero austro-ungarico, dopo la Prima guerra mondiale fu annessa all’Italia, ma lui non cambiò attività per questo. Anzi, per ampliarla, nel 1920 inviò un figlio, Giovanni, a vendere il resto nella vicina Grado, ch’era la località balneare preferita dall’aristocrazia mitteleuropea. Livio, ch’é figlio di Giovanni, é quindi cresciuto nella laguna, ma a ridosso del Collio e delle Colline Orientali del Friuli, sognava di produrre vini in quella terra vocata alla vitivinicoltura, ma lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli impedì di realizzare qualunque progetto: venne richiamato alle armi nel giugno 1940. Tre anni in Libia, poi la prigionia a Capo Bon e per altri tre anni in Scozia. E, al ritorno, i confini della sua terra erano nuovamente cambiati. Ma lui, appena possibile, tornò agli antichi amori: nei primi anni 50 acquistò qualche ettaro di terreno a Rosazzo, nei Colli Orientali. “Erano anni difficili”, racconta. “La collina era in totale abbandono. Sorgevano le prime industrie e i contadini preferivano avvicinarsi alle città e al lavoro nelle fabbriche. Lo stesso paesaggio stava mutando. La mia sfida era oppormi a tutto ciò cercando di rendere nuovamente produttiva la collina”. Scelse Brazzano, nel Collio, per costruire la cantina dell’azienda, cantina che si é ampliata man mano che la produzione cresceva. Oggi la sua azienda possiede 160 ettari, di cui 135 vitati, nel Collio e nei Colli Orientali, e la sua produzione si aggira intorno a 800mila bottiglie all’anno. Lui potrebbe godersi la posizione di patriarca, la fama di rifondatore della tradizione enoica friulana, ma neanche l’avanzare dell’età é riuscito a fermarlo. E’ stato uno dei primi a capire che i vignaioli friulani non possono continuare a produrre tutte le tipologie concesse dalle Doc: devono coltivare esclusivamente quei vitigni che nei loro terreni danno risultati eccelsi, per creare meno vini ma di inconfondibile personalità. E con l’aiuto dei figli, Maurizio, Andrea, Elda e Filippo, a dispetto dei suoi 90 e più anni, sta realizzando questo programma nei vigneti ad alta vocazione in Vencò, Ruttars e Rolàt, nel Collio, e a Rosazzo, nei Colli Orientali. Ha già messo a segno due esiti entusiasmanti: il Terre Alte, un uvaggio di tocai, pinot bianco e sauvignon, che si é imposto da 11 anni al vertice tra i bianchi del Friuli, e il Sossò, merlot, refosco e pignolo, nato con la vendemmia ’89, un rosso potente e morbido dagli esplosivi profumi di frutti di bosco, confettura di prugne e spezie.
Lungarotti
LungarottiBiography
La Cantina Lungarotti é nata nel 1962 a Torgiano, in Umbria, a pochi chilometri da Perugia e Assisi, e da quel momento é diventata il punto di riferimento enologico più importante per l’Umbria intera. Giorgio Lungarotti, che l’aveva fondata per vinificare le uve provenienti dalle varie aziende agricole possedute della famiglia, é stato definito “l’uomo che più e meglio ha fatto conoscere l’Umbria nel mondo dopo San Francesco”. E sua moglie Maria Grazia lo ricorda come “un pioniere”. Troppa enfasi? Può darsi, però Giorgio Lungarotti, scomparso nel 1999, é stato davvero colui che per primo ha creato vini di pregio in una regione fino allora priva di benemerenze enologiche, e li ha fatti conoscere in tutti i continenti esportandovi metà della produzione, che oggi é arrivata a 2,9 milioni di bottiglie. E fino agli ultimi suoi giorni, a 88 anni suonati, quando si parlava di vino, su questo tema era ancora capace di vedere più lontano degli altri. Da allora, la gestione é passata nelle mani di sua figlia Chiara Lungarotti: l’aiuta la sorella Teresa Severini, mentre la mamma, Maria Grazia, dirige i lavori della Fondazione Lungarotti, benemerita per la diffusione della cultura del vino. L’azienda Lungarotti ha infatti creato a Torgiano uno dei più importanti musei su questo tema, raccogliendo una documentazione storica e artistica che non ha eguali. La forte impronta familiare che continua ad avere l’azienda é basata sul rispetto dei valori che uniscono tradizioni, storia e territorio, ma anche sulla capacità di sperimentare modelli di sviluppo innovativi. La Lungarotti sta realizzando infatti, in collaborazione con l’Università di Perugia, il primo progetto italiano per produrre energia elettrica con i sarmenti potati nei vigneti, ed é una soluzione che nelle aziende di grandi dimensioni può portare addirittura all’autosufficienza energetica. Proiettata nel futuro, la maggior casa vinicola umbra non dimentica però il proprio presente produttivo e qualche anno fa ha acquistato vigneti e costruito una cantina a Montefalco riuscendo così a inserire il Sagrantino nella vasta gamma dei suoi prodotti. I vini Lungarotti di maggior prestigio restano però i rossi di maturazione insolitamente lunga (compaiono sul mercato quattro o cinque anni dopo la vendemmia) ricavati a due cru: il Rubesco Vigna Monticchio Riserva, a base di sangiovese e canaiolo, e il San Giorgio, in cui le due uve autoctone sono miscelate al cabernet sauvignon. Quest’ultimo é stato il primo SuperUmbrian della regione: nato con la vendemmia 1977, viene prodotto esclusivamente nelle grandi annate.
Marchesi de' Frescobaldi
Marchesi de' FrescobaldiBiography
Il nome Frescobaldi ha una tradizione nel mondo del vino che risale a oltre 700 anni fa e che da allora ha impegnato 30 generazioni. A questa tradizione, negli anni 60 del secolo scorso, Vittorio Frescobaldi, titolare delle proprietà di famiglia insieme ai fratelli Dino, Maria, Ferdinando e Leonardo, ha dato una moderna organizzazione creando un’azienda vitivinicola con sede a Firenze, nove proprietà in Toscana e una in Friuli. Si tratta di oltre 890 ettari di vigneto, impiantati in condizioni pedoclimatiche molto diverse, da cui si ricavano ogni anno 7 milioni di bottiglie di elevata qualità. Difficile far percepire una realtà così variegata a clienti, estimatori e giornalisti. I Frescobaldi ci sono riusciti esponendo in un salone gli elementi caratteristici delle loro tenute più importanti, e proponendo ai visitatori un viaggio virtuale attraverso le loro biodiversità, usando tutt’e cinque i sensi: l’olfatto e il gusto, in primo luogo, degustandone il vino più significativo, abbinato a specialità gastronomiche della zona, e identificandone uno a uno i profumi nelle essenze che l’enologo della tenuta metteva a disposizione. Era un gioco in cui veniva coinvolta anche la vista, il tatto e perfino l’udito, con l’ascolto di pezzi musicali appositamente scelti. Un modo originale per conoscere le antiche proprietà Frescobaldi, il Castello di Pomino, la tenuta di Castiglioni, il Castello di Nipozzano, ma anche quelle più recenti, Castelgiocondo, Montalcino, Santa Maria, nella Maremma grossetana, Luce della Vite, nata come joint-venture con i Mondavi di Napa Valley e poi acquisita al completo, e infine la tenuta Attems nel Collio goriziano. E’ dai cru di Nipozzano che provengono il Montesodi e il Mormoreto, da quelli di Castelgiocondo il Lamaione: i SuperTuscan che hanno dato più soddisfazioni ai Frescobaldi. A curarne la produzione é oggi un enologo di famiglia, Lamberto Frescobaldi, e con lui altri tre rappresentanti dell’ultima generazione già operano in azienda: Tiziana e Diana Frescobaldi e Stefano Benini.
Marchesi di Grésy - Azienda Agricola Martinenga
Marchesi di Grésy - Azienda Agricola MartinengaBiography
Martiningen, cioé “luogo sacro al dio Marte” é il nome dato dagli antichi Liguri all’area boscosa sottostante l’altura su cui questi avevano trovato rifugio (lat. asylum) dalle legioni romane che, conquistata la vicina città di Alba, si accingevano a prendere il controllo dei suoi immediati dintorni. Dopo oltre duemila anni la toponomastica dei luoghi é ancora legata a quei remoti eventi: Asili e Martinenga sono oggi, infatti, tra i più celebri vigneti di Barbaresco, l’antica barbarica sylva. Sul cru Martinenga e sugli altri splendidi vigneti compresi nella Tenuta omonima, i Marchesi di Gresy hanno fondato la loro fama di produttori d’eccellenza.
Dal 1973 Alberto di Gresy ha iniziato a vinificare in proprio le uve nebbiolo degli 11 ettari coltivati nella Tenuta, ottenendone vini considerati tra i migliori di tutta la denominazione Barbaresco. I tre cru di nebbiolo Martinenga, Gaiun e Camp Gros si fanno portatori, con invidiabile costanza anche nelle annate più difficili, di tutta l’eleganza che questo meraviglioso terroir può esprimere.
La filosofia della Marchesi di Gresy é fondata su attente e scrupolose lavorazioni in vigna, al fine di ottenere uve di altissima qualità, quindi su scelte enologiche che coniughino al meglio tradizione e ricerca. I risultati sono di assoluta eccellenza, sia con i classici vitigni di langa, sia con l’intelligente proposta di vini da uve internazionali quali chardonnay, sauvignon e merlot. é tuttavia il Barbaresco Camp Gros a riassumere in sè compiutamente il carattere dei grandi vini piemontesi: prodotto a partire dal 1978 solo nelle migliori annate, é una selezione ottenuta da una piccola parte del vigneto Martinenga, quella che sale verso Rabajà. Una “summa” dell’enologia langarola in cui i fattori biologici, ambientali e umani concorrono a regalare straordinarie doti di complessità e armonia, conferendo al vino immense capacità di evoluzione.
Accanto alla Tenuta Martinenga, Marchesi di Gresy può contare su la Tenuta Monte Aribaldo, che comprende vigneti a dolcetto, chardonnay e sauvignon situati in comune di Treiso, e sulle proprietà di La Serra e Monte Colombo, dove invece trionfano moscato, barbera e merlot.
Marco Felluga
Marco FellugaBiography
Fratello di Livio, Marco Felluga appartiene alla stessa dinastia di viticoltori. Cresciuto a Grado e formatosi alla scuola enologica di Conegliano, era inevitabile che si innamorasse del vicino Collio, dove la magia del paesaggio si sposa a un clima e a un terreno ad altissima vocazione viticola. Dalla laguna si trasferì perciò in collina, a Gradisca d’Isonzo, dove fondò la sua cantina.
L’equilibrio con cui é riuscito a utilizzare innovazioni e tecnologie avanzate per meglio salvaguardare la tradizione, hanno fatto della sua azienda un punto di riferimento per tutto il territorio. Non a caso il Consorzio del Collio si é affidato alla sua guida anche in un recente passato. Oggi, a proseguire sulla strada della qualità assoluta da lui tracciata é il figlio Roberto, che rappresenta la quinta generazione. 120 ettari in proprietà, una produzione di 600mila bottiglie, due grandi vini al vertice della gamma, il rosso Carantan e il bianco Molamatta fanno della Marco Felluga un’azienda di tutto rispetto, che però é solo la capofila di un gruppo di cui fan parte altre tre tenute. La più importante é Russiz Superiore, 96 ettari, di cui 70 a vigneto, carichi di storia (i proprietari, nel 1200, erano i principi Torre e Tasso).
Acquistati nel 1966 a Capriva del Friuli, se ne ricavano 200mila bottiglie, tra le quali emergono un bianco, il Col Disore, e un rosso, la Riserva degli Orzoni.
E’ invece un’acquisizione del 1994 il Castello di Buttrio, dotato di un ricco patrimonio di vitigni autoctoni ricavati dai vecchi vigneti dell’azienda. Due i vini: un bianco, il Castello di Buttrio-Ovestein, e un rosso, il Castello di Buttrio-Marburg. L’ultima proprietà entrata a far parte del gruppo Marco Felluga é di 50 ettari (25 a vigneto) a San Casciano Val di Pesa, nelle terre del Chianti Classico: é San Nicolò a Pisignano, da cui si trae un cru a base di sangiovese, il Sorripa.
Masciarelli
MasciarelliBiography
L’idea di produrre vino si concretizza per Gianni Masciarelli nel 1981, dopo un illuminante soggiorno in Francia. Seguendo le orme del nonno che già coltivava una piccola proprietà di vigneti, inizia a imbottigliare Trebbiano e Montepulciano nell’azienda situata a San Martino sulla Marruccina, in provincia di Chieti, 20 km dal Mare Adriatico e stessa distanza dalla catena della Majella. Grazie a questa particolare posizione, i vigneti di San Martino, situati a 400 metri slm e inizialmente estesi per soli 2,5 ettari, godono di una condizione climatica assai favorevole.
Recentemente sono stati acquisiti vigneti in tutte le province abruzzesi, privilegiando la coltivazione delle uve montepulciano d’Abruzzo tra quelle a bacca rossa, e trebbiano e chardonnay tra quelle a bacca bianca. L’Azienda agricola oggi si estende, considerando le diverse tenute, su 320 ettari dei quali ben 273 sono coltivati a vigna; con l’indiscutibile qualità dei suoi vini di punta, Gianni Masciarelli ha contribuito a rendere nota al grande pubblico internazionale la peculiarità enologica della terra d’Abruzzo, puntando da sempre con decisione sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni e sulla tipicità come valori fondanti di tutta la sua produzione
La produzione é suddivisa in tre linee di prodotti con le quali si é imposta non solo sul mercato nazionale ma anche su quello estero: Masciarelli Classico, Villa Gemma, i Cru veri e propri della casa, e Marina Cvetic, moglie di Gianni Masciarelli, che raggruppa diverse etichette prodotte nella sua azienda personale dislocata tra le province di Chieti, Teramo e Pescara. Il vino di punta sin dal 1984, prima annata prodotta, é tuttora il Montepulciano d’Abruzzo Villa Gemma, grande rosso potente e concentrato, autentico por-tabandiera della terra d’Abruzzo; a fianco di questo devono essere menzionati anche il Trebbiano e lo Chardonnay della linea Marina Cvetic. Soprattutto il Montepulciano Villa Gemma merita un’attenzione tutta particolare: già dal colore denota le sue caratteristiche di imponenza mostrando riflessi rosso cupo molto intensi tendenti addirittura al blu; in bocca si mostra ampio, fruttato, balsamico con note speziate finissime che vanno dall’eucaliptus al cacao e al cuoio. Tuttavia anche il Trebbiano Marina Cvetic é un vino di pregevole struttura e ricchezza, tanto da essere considerato una pietra miliare tra i bianchi di grande corpo; le sue opulente note di pesca, papaia e lavanda sono inconfondibili e ne fanno uno dei più celebrati bianchi del Centro-sud.
Mastroberardino
MastroberardinoBiography
Alla Mastroberardino spetta il primato d’essere la casa vitivinicola più antica dell’intera Campania. Fondata nei primi anni del Settecento, ha sede nell’Ottocentesca cantina in comune di Atripalda.
Al timone di questa grande azienda familiare é oggi Piero Mastroberardino, figlio di quell’Antonio che, nell’immediato dopoguerra, con profetica lungimiranza aveva coraggiosamente puntato sulla riscoperta dei vitigni autoctoni irpini (fiano, greco di tufo e aglianico) attraverso la loro vinificazione in purezza.
Un forte legame ai valori tradizionali del territorio che la Mastroberardino tuttora conserva e che tuttavia non le ha impedito di dotarsi delle più moderne tecnologie produttive, nè, tantomeno, di investire in ricerca e sperimentazione per esplorare le potenzialità dei “nuovi antichi vitigni” campani. Una vocazione alla qualità che trova felice espressione nelle stesse volte affrescate della cantina sotto cui si affinano e maturano i vini.
Per ottenere uve della massima qualità, la Mastroberardino possiede tenute in ciascuna delle più pregiate aree viticole irpine. Tra le selezioni di maggior rilievo meritano senz’altro una citazione il Taurasi Radici e il Villa dei Misteri. L’interpretazione proposta dall’azienda dell’unico vino rosso campano a Denominazione d’origine controllata e garantita é un efficace compendio del patrimonio aromatico dell’aglianico: note di ciliegia e mora, una discreta componente di spezia dolce cui si affiancano, via via più avvertibili con il protrarsi dell’invecchiamento, sentori selvatici, di cioccolato e di cuoio.
Il Villa dei Misteri più che un vino é un vero e proprio progetto culturale: le uve piedirosso e sciascinoso che lo compongono provengono infatti da ben cinque vigneti (Oste Eusino, Casa della Nave Europa, Osteria del Gladiatore, Foro Boario e Casa del Triclinio Estivo) situati all’interno dell’area archeologica di Pompei. Su incarico della Soprintendenza, Mastroberardino ha saputo far rinascere la viticoltura nell’antico centro urbano sommerso dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Ugualmente degno di nota é il Taurasi Naturalis Historia, da sole uve aglianico raccolte da un unico vigneto sito in comune di Mirabella Eclano.
Michele Chiarlo
Michele ChiarloBiography
Con una graduale ma irresistibile ascesa, Michele Chiarlo, enotecnico figlio di viticoltori da cinque generazioni, é oggi alla testa di un’azienda conosciuta in tutto il mondo che produce ogni anno 1 milione di bottiglie. Di pregio. Inizio modestissimo nel 1956: una piccola cantina a Calamandrana, nell’Astigiano, per commercializzare Barbera e Moscato. La cantina si chiamava Duca d’Asti. “Il vino, allora, era un prodotto povero”, ironizza Chiarlo; “si cercava di nobilitarlo almeno con il nome”. Due anni dopo, però, la piccola impresa era già in grado di provvedere all’invecchiamento dei Barbera generosi della zona. Fu proprio un Barbera della vendemmia 1958, anzi, conservatosi a lungo quanto un Bordeaux, a permettergli molti anni dopo di farsi conoscere negli Stati Uniti sorprendendo tutti a una degustazione. Per assicurarsi la qualità della materia prima, appena ha potuto, Chiarlo ha cominciato ad acquisire vigneti. Oggi possiede 60 ettari e ne gestisce in conduzione altri 50. Produce i vini piemontesi più importanti e per vinificarli nelle rispettive zone di produzione ha attrezzato tre cantine: una a Calamandrana, suo quartier generale, un’altra a Gavi e una terza a Barolo. A produrre Barolo, Chiarlo ha cominciato nel 1982 comprando le uve, poi coltivando vigneti in affitto e infine acquistandoli. Nell’89 é così diventato proprietario di 6 ettari a La Morra, nel cru di Cerequio, mentre l’anno dopo ha comprato un ettaro e mezzo nel più storico dei cru del comune di Barolo, Cannubi. L’appezzamento, troppo scosceso per i trattori, aveva già provveduto a sistemarlo in maniera inedita per le Langhe, senza alterare il profilo della collina, ogni filare impiantato su un minuscolo terrazzamento che segue la curva di livello. “Così le viti non si fanno ombra l’una con l’altra”, spiega, “e le uve maturano perfettamente. Ma quando avevo affrontato l’impresa non ero certo che quel terreno sarebbe diventato mio…”. I Barolo si sono aggiunti, al vertice della sua gamma, al Barbera di maggior impegno, La Court. Nel cru dal quale lo ricava, per dare impulso alla valorizzazione del territorio, Chiarlo ha realizzato un innovativo parco artistico. Ma la sua più grande soddisfazione é che a portare avanti l’opera da lui iniziata saranno i figli. Stefano, che ha studiato enologia, é responsabile dei vigneti ed enologo dell’azienda insieme a Gianni Meleni, mentre Alberto, studi di marketing alle spalle, si occupa del settore commerciale. Con loro, la sesta generazione é già in pista.