Pio Cesare
Pio CesareBiography
Nelle cantine che Cesare Pio creò nel 1881 ad Alba, il tempo sembra essersi fermato. Anche se le ha ristrutturate per valorizzarne l’importanza storica e architettonica, é sempre in quelle cantine, le uniche rimaste nel centro storico di Alba, che la famiglia del fondatore vinifica da cinque generazioni le uve delle Langhe. In realtà, il tempo non s’é affatto fermato: anzi, l’attuale proprietario, Pio Boffa, non ha esitato a cambiare ciò che riteneva superato, anche se l’aveva ereditato dal fondatore, suo trisnonno per via materna. Cesare Pio non possedeva vigne: vinificava uve comprate da terzi e ne affinava i vini. Entrando in azienda 35 anni fa, Pio Boffa si rese conto ch’era diventato indispensabile possedere e coltivare direttamente i vigneti: i giovani vignaioli stavano abbandonando le colline delle Langhe, attratti dal mito della fabbrica e dal miraggio della città. Ebbe perciò un ruolo decisivo nel convincere suo padre ad acquisire la tenuta Bricco a Treiso, nella zona del Barbaresco, e la cascina Ornato a Serralunga d’Alba, in quella del Barolo. Acquistate rispettivamente nel 1974 e nel 1979 da ex conferenti, sono due autentici cru. Da allora, Pio Boffa ha attuato in azienda una rivoluzione permanente, ma di velluto. La decisione più traumatica l’ha presa alla vendemmia 1985, quando ha vinificato in selezione le migliori uve del vigneto di Serralunga d’Alba. Per più di un secolo la Pio Cesare aveva assemblato per il suo Barolo le uve di diversi vigneti, in modo da cogliere qui il corpo, là i profumi, laggiù il colore: quella era la prima volta che con quel marchio centenario faceva la sua comparsa non un Barolo ma il Barolo Ornato, il Barolo di un cru. Qualche preoccupazione di suscitare la reazione della clientela Pio Boffa non nega d’averla avuta, ma l’Ornato é stato uno dei più grandi successi dell’azienda. Cosicchè, con le uve di un’altra grandissima vendemmia, quella del 1990, ha fatto il suo debutto anche il Bricco, un cru di Barbaresco, ricavato dalla tenuta di Treiso.
San Felice
San FeliceBiography
Il lato più sorprendente di San Felice é questo: appartenendo a una grande compagnia di assicurazioni, la Riunione Adriatica di Sicurtà, meglio conosciuta come Ras, non possiede una figura carismatica d’imprenditore che imprima la sua personalità ai vini, eppure é riuscita ugualmente ad affermarsi tra i produttori di qualità. Lo deve a uno straordinario personaggio purtroppo prematuramente scomparso, Enzo Morganti, a cui la Ras aveva affidato 30 anni fa la direzione delle attività vinicole. L’impresa é nata infatti nel 1978, quando la storica tenuta di San Felice, situata a pochi chilometri da Siena nel comune di Castelnuovo Berardenga, zona sud-est del Chianti Classico, fu acquistata da un’azienda farmaceutica, l’Esculapius Kaloderma. Anticamente la tenuta rientrava nella proprietà della Pieve di San Felice in Avane, contesa tra i vescovi di Arezzo e Siena sin dall’anno 714. Si trattava di circa 600 ettari, di cui 140 vitati, che la Ras ha progressivamente ampliato e potenziato con l’acquisizione di altre proprietà, come la confinante Pagliaia, l’azienda Campogiovanni a Montalcino e la tenuta Perolla in Maremma, vicino a Grosseto. Grazie alle intuizioni di Morganti, San Felice era già allora un’azienda d’avanguardia: dieci anni prima, nel 1968, aveva creato con il Vigorello, un rosso maturato in barrique da uve autoctone, in prevalenza sangiovese, un antesignano dei SuperTuscan, precedendo addirittura il Tignanello. Oggi il Vigorello, che ha trovato la formula definitiva abbinando al sangiovese cabernet sauvignon e merlot, non é solo al vertice della gamma di San Felice. Gli sono accanto due vini prodotti esclusivamente nelle annate eccezionali: il Poggio Rosso, Chianti Classico Riserva da uve di sangiovese e colorino coltivate sulla collina più vocata dell’azienda, da cui prende il nome, e il Brunello di Montalcino Riserva Il Quercione, in cui si esprimono tutte la potenzialità del cru Campogiovanni. Ma il vino da cui l’attuale direttore di San Felice, Alessandro Marchionne, sta ottenendo le più grosse soddisfazioni é il Pugnitello, ricavato dall’omonimo vitigno autoctono, su cui l’azienda ha svolto per 20 anni un importante lavoro di ricerca in collaborazione con l’Università di Firenze.
Tasca d'Almerita
Tasca d'AlmeritaBiography
L’azienda fu creata nel 1830, quando i fratelli Lucio e Carmelo Mastrogiovanni Tasca acquistarono l’ex feudo Regaleali, circa 1.200 ettari a Sclafani, al confine della provincia di Palermo con quella di Caltanissetta. A dirigerla in quei primi anni fu Lucio, che ne fece una fattoria modello. Quella d’essere all’avanguardia nell’isola é una caratteristica a cui Regaleali non ha mai rinunciato, neanche dopo 120 anni, quando, finito il Secondo conflitto mondiale, la riforma agraria causò l’esproprio di oltre metà dei 1.200 ettari originari, portandoli a circa 500: il conte Giuseppe Tasca ebbe la lungimiranza di reagire decidendo con determinazione di puntare sulle vigne e sul vino, mirando esclusivamente all’alta qualità. Fu un pioniere nella coltivazione delle viti a spalliera, nel ridurre le rese per ettaro, nel valorizzare i vitigni autoctoni come l’inzolia e il nero d’Avola, ma anche a sperimentare senza pregiudizi varietà internazionali quali chardonnay e cabernet sauvignon. La guida della casa vinicola é oggi affidata al conte Lucio e ai suoi due figli, Giuseppe e Alberto: a essi si deve la creazione di una società, composta quasi interamente da giovani siciliani, che coprendo tutte le aree strategiche, dalla contabilità al marketing, commercializza i vini della tenuta in tutto il mondo. Dal cuore della Sicilia, da quell’oasi ecologica che é Regaleali, , scaturiscono ogni anno 3 milioni di bottiglie: quattro bianchi, sei rossi, un rosato, due spumanti e un vino da dessert, tutti ricavati da autentici Cru. Due li aveva creati il padre di Lucio, il conte Giuseppe Tasca: il Rosso del Conte, un nero d’Avola messo a punto quando questo vitigno non era affatto di moda, maturato in botti di castagno (oggi sostituito con il rovere), e il Nozze d’Oro, un bianco realizzato per celebrare i 50 anni del suo matrimonio con la baronessa Franca Cammarata. Tra i bianchi emerge anche un polputo, elegante Chardonnay e tra i rossi un aristocratico Cabernet Sauvignon. Ma straordinari consensi sta riscuotendo anche il vino dolce aromatico Diamante d’Almerita, da uve di moscato e traminer.
Tenuta San Guido
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Più che un vino, il Sassicaia é una leggenda: é nato dal cabernet sauvignon quando questa varietà non aveva cittadinanza in Toscana; é maturato in barrique un quarto di secolo prima che diventasse di moda, e oggi é il vino italiano più conosciuto nel mondo. Eppure non proviene da nessuna zona di riconosciuta nobiltà enoica: é nato in Maremma, proprio là dove i cipressi a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar, da una geniale intuizione del marchese Mario Incisa della Rocchetta, un gentiluomo piemontese che nel 1943, rifugiatosi dopo l’armistizio dell’8 settembre nella vasta tenuta ereditata da sua moglie Clarice della Gherardesca, decise di realizzare un’idea che gli era venuta quand’era studente a Pisa: produrre su quelle colline sassose un vino di classe pari ai più famosi Bordeaux, i preferiti dall’aristocrazia italiana di allora. Incisa apparteneva a una famiglia piemontese di nobiltà vitivinicola, ma fino a quel momento si era dedicato alla prstigiosa scuderia di galoppo creata nel 1930 con Federico Tesio, la Dormello-Olgiata, allevando cavalli entrati nella storia dell’ippica come Nearco e Ribot. Tuttavia sapeva anche come si crea un vino di pregio: nel 1944 impiantò un primo vigneto di cabernet sauvignon. Poi, insoddisfatto dei risultati ottenuti, ne realizzò un secondo a Bolgheri, in una zona chiamata non a caso Sassicaia. A curare il vino in cantina chiamò un suo nipote, Carlo Guerrieri Gonzaga, specializzato in enologia a Losanna. Il primo a entusiasmarsene fu Luigi Veronelli, con uno storico articolo del 14 novembre 1974 su Panorama dedicato al millesimo 1968. Fu proprio quel millesimo il primo a essere immesso sul mercato, e da allora il Sassicaia é passato di successo in successo. La scelta del cabernet sauvignon e del cabernet franc (aggiunto successivamente) ha contagiato tutta la penisola, così come l’uso della barrique. Peccato che Mario Incisa, scomparso a 84 anni nel 1983 lasciando al figlio Niccolò la cura della razza Dormello-Olgiata e della Tenuta San Guido, non abbia potuto assistere all’ultima clamorosa vittoria del Sassicaia: la Doc che gli é stata cucita addosso nel 1994 per impedire che andasse ancora in giro nudo come Vino da Tavola, come aveva fatto per troppo tempo.
Tenute di Ambrogio e Giovanni Folonari
Tenute di Ambrogio e Giovanni FolonariBiography
L’azienda Tenute Ambrogio e Giovanni Folonari é nata dalla scissione dei Tenimenti Ruffino, quando, nel 2000 Ambrogio e il figlio Giovanni hanno deciso di concentrarsi sui vini di alta gamma, creando una collezione di aziende agricole molto bene locate che producono grandi vini, soprattutto in Toscana. La famiglia Folonari opera nel settore vitivinicolo sin dalla fine del 1700 e negli anni ha contribuito in maniera significativa a scrivere la storia del vino italiano e toscano in particolare. Risale in fatti al 1912 l’acquisizione dell’Azienda Ruffino da parte di Italo, nonno di Ambrogio, con la quale la famiglia Folonari, di origine bresciana, ha dato inizio alla propria ormai secolare avventura imprenditoriale sul territorio toscano. L’azienda oggi possiede Nozzole, acquistata nel 1971, e Cabreo a Greve in Chianti, Torcalvano a Montepulciano, la Fuga a Montalcino, e altre ancora come il Ronco dei Folo nei Colli Orientali del Friuli, la Tenuta Campo al Mare a Bolgheri, la Tenuta Conti Spalletti alla Rufina, o ancora la Tenuta Vigne a Porrona nella Doc Montecucco. Le etichette riportano il marchio della tenuta da cui provengono le uve che hanno prodotto quel vino, garantendone così il carattere specifico. Creatività, innovazione e precisione nel rispetto delle tradizioni del territorio sono il cuore della filosofia con cui l’azienda gestisce questo insieme di proprietà così diversificato. I due vini di maggior tradizione e prestigio internazionale sono senza dubbio il Pareto di Nozzole, e il Cabreo il Borgo; il primo é un sontuoso cabernet sauvignon in purezza di grande complessità ed eleganza, il secondo un assemblaggio di sangiovese e cabernet sauvignon, per nascita uno dei primi SuperTuscan in assoluto. Il Pareto ottenuto da una lunga maturazione di 16-18 mesi in piccole botti di rovere e da un successivo affinamento in bottiglia di almeno sei mesi, questo vino austero e concentrato ma al tempo stesso rotondo e suadente rappresenta l’abbinamento ideale per i grandi piatti a base di carne della cucina toscana come arrosti e selvaggina. Il Cabreo al contrario rappresenta una nobile sintesi tra l’eleganza tipica dei più selezionati ceppi di sangiovese chiantigiano, e la potenza strutturale del cabernet sauvignon che nella Tenuta di Zano, nei pressi di Greve in Chianti, si esprime a livelli di assoluta eccellenza.
Umani Ronchi
Umani RonchiBiography
Su scala internazionale non é una grande azienda, ma per gli standard italiani l’Umani Ronchi di Osimo, con 200 ettari di vigneto in proprietà, 30 in affitto e una produzione di 4 milioni di bottiglie all’anno, ha dimensioni da industria. E i vini delle industrie di solito non sono eccelsi. Ma l’azienda marchigiana é riuscita da tempo a ribaltare questa immagine. In che modo? Con la costanza della qualità e almeno tre vini di razza. Uno é il Plenio, un Verdicchio dei Castelli di Jesi pieno come dice il nome, e il secondo é il Cùmaro, un Rosso Conero Riserva morbido, armonioso, equilibrato, ma il terzo é il Pelago, un rosso insolito da uve di cabernet sauvignon, montepulciano e merlot, possente ed elegante come non ci si aspetterebbe in una regione nota quasi esclusivamente per il Verdicchio. L’anomalia della Umani Ronchi, in effetti, é di essere un’azienda che gode di tutti i vantaggi della dimensione industriale senza cedere alla tentazione di uno sviluppo meramente quantitativo, forse perchè é rimasta a carattere familiare: a dirigerne la produzione é stato finora Massimo Bernetti, che però ha già fatto salire sul ponte di comando il figlio Michele, responsabile della commercializzazione sui mercati esteri, mentre suo zio Stefano lo é per l’Italia. Ma come mai l’azienda non porta il loro nome? Semplice: fu fondata negli anni ’50 a Cupramontana da Gino Umani Ronchi. Però decollò soltanto quando nella società, pochi anni dopo, entrò l’ingegner Roberto Bianchi, che nel 1970 finì per rilevare l’intera proprietà e la affidò al genero, che era appunto Massimo Bernetti, dopo aver deciso di spostarne la sede a Osimo, dove sorge oggi la cantina principale. Il successo, sostengono i Bernetti, lo devono a tre scelte che hanno fatto: la diversificazione, in una regione dominata dalla produzione monoprodotto; l’esportazione, che assorbe quasi l’80% della produzione; la qualità, cioé rigorosa selezione delle uve, ridotte rese per ettaro, continui controlli di laboratorio, ma soprattutto un’incessante ricerca nelle vigne e in cantina. Per scegliere vitigni, cloni, sistemi d’allevamento delle viti, i Bernetti hanno vigneti sperimentali intorno a Villa Bianchi, la loro sede di rappresentanza a Moie di Maiolati, realizzati grazie a un accordo con il dipartimento di Biotecnologie agrarie e ambientali dell’Università di Ancona.